TTL - La Stampa,
3 luglio 2010

APOLLONIO RODIO, "ARGONAUTICHE", con commento di GUIDO PADUANO e MASSIMO FUSILLO, testo greco a fronte, RIZZOLI, 1986, 718 pp., 8,26 €

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Con gli Argonauti cerco il vello d’oro




Chi ha mai detto che a diventare famose sono le storie migliori? Non sono neanche le peggiori. Ma devono essere più facili, venire per seconde. Voi conoscete a memoria la storia di un viaggio fatto dopo il mio: quello di Odisseo, che vagò a lungo. Non conoscete il mio, che, pure, era più lungo. E molti luoghi che vi compaiono, e molti di quei personaggi e di quei prodigi, io li ho narrati per primo.


Io, Tersànore, figlio del sole, ho visto le Sirene, ma ho resistito al loro canto, perché un altro risuonava sulla mia nave: quello del mio compagno Orfeo; non avevamo bisogno di cera nelle orecchie, il richiamo della poesia vinceva quello della carne. Io, Tersànore, sono stato nel regno di Circe, ma lei non ha voluto trasformarci in porci: era mia sorella. Non eravamo, come Odisseo e i suoi, dei provinciali. Eravamo il fior fiore della Grecia. Ma il mio racconto vi è rimasto meno impresso, forse perché, a differenza di quello del piccolo re di Itaca, il nostro viaggio non aveva una vera mèta. E questo dipende, credo, dal fatto che io non ho raccontato un viaggio. Io ho raccontato il viaggio.


Non c’è bisogno di una vera mèta per viaggiare. Basta un pretesto. E nessun pretesto è mai stato più esile di quello di noi cinquanta che ci imbarcammo sulla nave Argo: il Vello d’Oro. Quando arrivammo in Colchide lo dissi chiaro al re Eèta: nessuno avrebbe mai fatto un viaggio come il nostro solo per impossessarsi di un oggetto. E di quale oggetto, poi: una pelle di montone appesa a un albero, dorata dal sole, come se ne vedono tante, d’estate, tra le rocce e gli sterpi.


Io, Tersànore, figlio di Leucòtea, che divenne un girasole, non sono partito dalle rovine di una città distrutta, come Odisseo, ma da una profumata spiaggia dell’Ellade. La mia nave non era, come la sua, un legno qualsiasi. Era fatta col legno del promontorio boscoso dei centauri, il Pilio. La prua era un pezzo della quercia profetica di Dodona, che Atena stessa aveva scolpito e dotato di parola.


Forse era troppo. E troppo eccellenti, forse, i miei compagni. Eracle, l’uomo più forte che sia mai esistito, e Atalanta, la vergine cacciatrice, e Castore, uno dei Dioscuri, e Calaide, l’alato figlio di Borea, e Eurialo, uno degli Epigoni; e Lapìti come Ceneo, che un tempo fu donna; e figli di Ares e di Posidone, di Ermes e di Dioniso e, come me, di Apollo; e re e principi, veggenti e apicoltori.


Al comandante, Iàson, il Guaritore, avevo dato lunghi capelli biondi, una pelle di leopardo, due lance e un solo sandalo. Una specie di giullare, e irresoluto, ma bello come il sole.
Sarà anche per questo che il pubblico non ha apprezzato il mio viaggio quanto i più raffinati tra i critici: gli alessandrini. Un filologo della Grande Biblioteca di Alessandria lo ha riscritto, nel meltemi di Rodi, che disegna sentieri sul mare violetto. Più tardi lo ha apprezzato l’autore della Biblioteca, e in seguito uno dei guardiani dei Libri Sibillini. Anche se l’unico a menzionare Tersànore, me, fu il sovrintendente della Biblioteca Palatina di Cesare Augusto.




La nave degli Argonauti dipinta dal ferrarese Lorenzo Costa il Vecchio (1460-1535), allievo di Benozzo Gozzoli; l’opera è conservata al Museo civico di Padova



In fondo il mio viaggio non era per le masse. Per loro, che senso aveva? Un capo bibliotecario, un flàmine, un filologo, magari possono capirlo. Non so voi. Mentre Odisseo viaggiò a ovest e a sud, noi viaggiammo a nord e a est. Volevamo passare all’Altro Mare. Che non era sbarrato dalle Colonne d’Ercole, ma solo dall’Ellesponto, il mare di Elle. Era lì che Elle cadde mentre volava con suo fratello Frisso in groppa all’ariete dal vello d’oro.


La prima tappa fu l’isola di Lemno. Lì ingravidammo tutte le donne. Poi facemmo scalo a Samotracia, la verde, la piena di sorgenti, e ci facemmo iniziare ai misteri. Eravamo pronti a varcare gli Stretti, il cui adito divide il Mar delle Capre, l’Egeo, dalla Propontide, il Marmara, e dal Ponto Eusino, il Mar Nero. Eravamo profeti, pronti a fare vela attraverso il Bosforo e a scoprire quell’altra sconfinata Ellade, Bisanzio, che spalanca le porte al grande Oriente.


Costeggiammo la Frigia e la Paflagonia e l’Assiria fino al Caucaso, e di lì alla Colchide, l’Abcazia. Poi, risalito il Mar Nero, imboccammo l’Istro, il Danubio, e scoprimmo l’Europa. L’attraversammo fino all’Adriatico e di lì navigammo l’Eridano, il Po, e il Rodano, e attraverso il paese dei Liguri e quello dei Celti, la Francia, riguadagnammo il Mare di Mezzo, e aggirando la Sardegna scoprimmo, ben prima di Enea, il Lazio. Per poi scendere tra Scilla e Cariddi fino alla Libia e trasportare la nave a spalle nel deserto. A Creta Minosse ci congedò in un deliquio simile a quello che avvolse un altro re legislatore, Mosè. Ma in una delle piccole Sporadi un’illuminazione divina simile a quella che avrebbe trasfigurato il giudeo che sarebbe diventato un messia, anche lui come me figlio di un dio, ci illuminò con un lampo di fiamma, e chiamammo quell’isola Anaphos, Lampo della Rivelazione. E risalimmo poi il Mar delle Capre fino all’Eubea, e tornammo a Iolco, da dove eravamo partiti.


Io, Tersànore, figlio di Apollo, non ho narrato il nostro periplo perché ammaliasse il pubblico come quello di Odisseo, né perché, come quello, adombrasse il viaggio celeste dell’anima, compiacendo i filosofi mistici sempre alla ricerca di un senso all’avventura terrena. Nel mio viaggio il senso si dissolveva a ogni verso. Come sanno mio padre Apollo il sanguinario e Atena dagli occhi di rapace, l’unico scopo della vita è sopravvivere, l’unico senso del viaggio è viaggiare, l’unico Graal è una pelle di montone che il sole ha dorato e lasciato seccare.


L’angusto viaggio di Odisseo durò dieci anni. Il mio, tanto più vasto, quattro mesi. Che ho trascorso a Iolco, sulla riva del golfo di Pagase, davanti all’allucinante mare violetto solcato dai sentieri del meltemi, mentre mia moglie Medea mi versava quei filtri, che a differenza di quelli di Elena non addormentano il cuore degli uomini, ma insegnano alla loro anima a viaggiare, senza che il loro corpo si debba spostare.

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Silvia Ronchey





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